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Riforma del TUF, ma Tobin Tax e Pex mettono a rischio l’attrattività del mercato dei capitali

Nel pieno del percorso di riforma del Testo Unico della Finanza, con cui Governo e Parlamento dichiarano di voler rafforzare l’attrattività del mercato dei capitali italiano, gli emendamenti alla manovra finiscono per produrre effetti che vanno nella direzione opposta. Da un lato viene rivista la disciplina sulla tassazione dei dividendi e sulle plusvalenze, dall’altro si introduce un raddoppio della Tobin Tax. Due interventi che stanno generando forte preoccupazione negli ambienti finanziari perché rischiano di penalizzare ulteriormente un mercato già fragile.


Sul fronte della tassazione dei dividendi incassati dalle società partecipanti, la stretta inizialmente ipotizzata viene in parte attenuata. La riformulazione restringe l’accesso al regime di esclusione dalla doppia imposizione, prevedendo che possano beneficiarne soltanto le partecipazioni detenute direttamente o indirettamente, tramite società controllate, superiori al 5% oppure di valore superiore a 500 mila euro. La novità rilevante rispetto alla versione originaria è che queste soglie vengono estese anche al trattamento delle plusvalenze e non soltanto ai dividendi. Inoltre, viene chiarito che le nuove regole sul capital gain si applicheranno esclusivamente alle partecipazioni acquisite a partire dal 1° gennaio 2026, lasciando quindi inalterato il trattamento delle partecipazioni già presenti nei portafogli delle holding.


Secondo Simone Strocchi, fondatore e presidente di Electa Ventures e IPO Club, un intervento sulla Participation Exemption era ormai atteso e l’introduzione della soglia del 5% o dei 500 mila euro rappresenta un elemento di mitigazione, così come la salvaguardia delle partecipazioni già detenute, che evita vendite forzate nel breve periodo. Tuttavia, nel complesso, la misura non favorisce lo sviluppo del mercato dei capitali. In una fase in cui sarebbe invece necessario incentivare le holding familiari, molto diffuse in Italia e dotate di ingenti risorse, a investire stabilmente in Borsa, si rischia di allontanare capitali proprio dalle società più piccole. Queste ultime, caratterizzate da una liquidità ridotta, restano spesso fuori dal radar dei grandi fondi di investimento e avrebbero bisogno di azionisti di lungo periodo. Per questo, secondo Strocchi, sarebbe stato opportuno prevedere una piena salvaguardia della PEX e dell’esenzione dalla doppia tassazione dei dividendi almeno per le partecipazioni in società quotate con capitalizzazione inferiore al miliardo di euro.


Il timore è che l’effetto della norma colpisca soprattutto le holding di dimensioni minori, inducendole a indirizzare i propri investimenti verso altri asset. Ciò finirebbe per indebolire ulteriormente il segmento delle piccole società quotate, trasformandolo sempre più in un terreno di opportunità per operazioni di take-over a prezzi contenuti, spesso da parte di capitali esteri, con il rischio di perdita di controllo nazionale su realtà industriali strategiche.

Ancora più critico appare l’intervento sulla Tobin Tax. La riformulazione di uno degli emendamenti alla manovra prevede il raddoppio dell’imposta sulle transazioni finanziarie: l’aliquota passa dallo 0,1% allo 0,2% per le operazioni effettuate su mercati regolamentati e dallo 0,2% allo 0,4% per quelle effettuate fuori mercato. Anche l’aliquota sulle negoziazioni ad alta frequenza viene innalzata dallo 0,02% allo 0,04%. L’aumento è stato deciso per compensare la riduzione del gettito derivante dalla minore platea di società soggette all’inasprimento della tassazione sui dividendi per le partecipazioni inferiori al 5%.


Secondo Alberto Franceschini Weiss, presidente di Ambromobiliare, il raddoppio della Tobin Tax rappresenta una scelta fortemente penalizzante per il Paese in una fase in cui vi è un forte bisogno di capitali per sostenere imprese e infrastrutture. Borsa Italiana è a tutti gli effetti un’infrastruttura strategica nazionale e aumentare i costi di accesso significa favorire lo spostamento delle aziende verso altri listini, con benefici per borse e intermediari esteri. A suo avviso, l’abolizione dell’imposta produrrebbe nel medio-lungo periodo un gettito superiore, oltre a rafforzare il sistema di raccolta dei capitali a servizio del tessuto industriale italiano.


Un’analisi condotta da Ambromobiliare stima che l’introduzione della Tobin Tax abbia comportato, nel solo 2024, una perdita netta di gettito fiscale per lo Stato pari a circa 500 milioni di euro, anziché l’incremento inizialmente previsto. La causa principale sarebbe la contrazione dei volumi di scambio azionario, che ha ridotto i ricavi dell’industria del risparmio gestito e del suo indotto, con un impatto negativo sul gettito IRPEF e IRES. Fin dalla sua introduzione, infatti, il gettito effettivo dell’imposta è rimasto ben al di sotto delle stime originarie: a fronte di una previsione iniziale di circa un miliardo di euro annui, poi ridotta a 800 milioni, nel 2024 il gettito si è attestato intorno ai 546 milioni.

Lo studio evidenzia una forte correlazione tra l’introduzione della Tobin Tax e la riduzione degli scambi azionari a Piazza Affari. Prima dell’imposta, i volumi superavano i mille miliardi di euro l’anno; successivamente, nonostante una forte crescita della capitalizzazione complessiva della Borsa di Milano, passata da 365 miliardi nel 2022 a oltre 810 miliardi nel 2024, i volumi hanno registrato un calo del 34% nel periodo 2012-2024. Una dinamica che non si osserva su altri listini esteri e che suggerisce uno spostamento degli investitori verso mercati stranieri o strumenti esenti, come gli ETF.


Nello scenario controfattuale elaborato da Ambromobiliare, in assenza della Tobin Tax i volumi di scambio sarebbero cresciuti in linea con l’aumento della capitalizzazione di borsa e del patrimonio gestito. La mancata crescita avrebbe invece generato minori commissioni per l’industria dell’intermediazione finanziaria, minori ricavi per l’indotto e un consistente calo delle imposte dirette. Solo nel 2024, secondo le stime, le mancate commissioni di intermediazione ammonterebbero a oltre 1,58 miliardi di euro, mentre la perdita di gettito IRPEF e IRES sarebbe pari a circa 1,047 miliardi. Al netto dei 546 milioni effettivamente incassati con la Tobin Tax, la perdita fiscale complessiva si attesterebbe intorno ai 501 milioni.

Oltre all’impatto sui conti pubblici, lo studio segnala anche un impoverimento strutturale del settore finanziario italiano, dovuto alla perdita di competenze e professionalità che seguono lo spostamento degli scambi e del business verso altri Paesi. Franceschini Weiss sottolinea come il numero di intermediari sia in costante diminuzione, con SIM che chiudono e SGR che vengono accorpate, e attribuisce questa dinamica alla scarsa attrattività di Piazza Affari, caratterizzata da volumi sempre più ridotti. In questo contesto, non sorprenderebbe la scelta di altre società di seguire l’esempio di Brembo, mantenendo la sede fiscale in Italia ma trasferendo la sede legale in Paesi come Olanda o Lussemburgo per sottrarsi all’applicazione della Tobin Tax.

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